Riunioni settimanali



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venerdì 11 aprile 2008

Dagli amici del Movimento Pro Centro Storico...

La presenza a Taranto, in questi giorni, dell’arch. Cervellati e la puntuta replica alle sue parole da parte dell’assessore comunale all’urbanistica del Comune di Grottaglie ci hanno fatto venire voglia di raccontarvi un eloquente esempio di cosa intendono per democrazia partecipata gli amministratori del nostro Comune.
Nel febbraio 2004, a Grottaglie veniva adottato il “Piano di recupero del centro storico”, a firma giust’appunto dell’arch. Cervellati. Quindi, soltanto nel luglio del 2007, e dopo pressanti insistenze del nostro Movimento, con delibera del consiglio Comunale è stato istituito l’ “Ufficio del Piano”. Con esso - come affermato nella relazione di presentazione dello stesso - gli amministratori comunali intendevano creare “una sorta di consulta aperta alla società e ai diretti interessati”, per esaminare tutte le problematiche relative all’attuazione del Piano, affidandogli il compito di “formulare proposte, dare pareri ed indirizzi su ogni problematica riguardante il centro storico e il Quartiere delle ceramiche, ed in particolare sugli interventi pubblici da realizzare nelle dette zone, nonché sulla organizzazione dei servizi pubblici… (art.3, co. 1°, Regolamento di attuazione).
Finalmente - abbiamo pensato - le scelte incidenti sul centro storico, anche di carattere urbanistico, sarebbero state il frutto di un confronto tra le volontà degli amministratori, i pareri dei loro tecnici e le istanze della comunità locale.
Senonchè, come sarebbero andate realmente le cose s’è capito subito, allorquando abbiamo saputo che di tale ufficio avrebbero fatto parte gli stessi tecnici comunali, due consiglieri comunali, l’assessore all’urbanistica in qualità di presidente, altre varie figure professionali (un avvocato, uno storico etc.) e qualche rappresentante delle associazioni del centro storico, tra cui la nostra. Insomma, una sorta di ufficio tecnico allargato, pur non avendone gli stessi poteri.
Vano è stato ogni nostro tentativo di convincere l’assessore proponente che un siffatto organo non avrebbe avuto nulla dell’auspicata “consulta”, ma era piuttosto un ibrido, che portava all’assurdo per cui gli stessi che elaboravano un progetto all’interno di un ufficio dovevano poi valutarlo quali componenti di un altro. La nostra richiesta di garantire una maggiore rappresentatività delle componenti laiche, rappresentative della comunità sociale, non è stata nemmeno presa in considerazione. Evidente era - ne dobbiamo dedurre - la volontà degli apparati amministrativi comunali di mantenere una posizione dominante finanche all’interno di un organo con funzioni meramente consultive.
Nonostante ciò, abbiamo comunque deciso di farne parte, nella convinzione che, almeno, avremmo avuto l’occasione di dire la nostra in una sede istituzionale.
Ma anche quest’obiettivo minimo è rimasto frustrato.
L’Ufficio, infatti, da luglio, si è riunito soltanto tre volte: a tali sedute hanno partecipato anche non aventi diritto in base al regolamento istitutivo; e, quando la nostra rappresentante ha chiesto di prendere visione del verbale, per verificare se ivi fosse stato dato atto dei suoi interventi, s’è vista rispondere dall’assessore presidente che un verbale non esisteva, ma che comunque c’era il riassunto effettuato dall’addetto stampa del Comune e pubblicato sul sito internet di questo!
Ma - come si usa dire - questo è niente.
Quel che è più grave è che, in quelle occasioni, si è discusso di progetti di grande impatto, costosi, e tuttavia già approvati, definiti e, senza alcun parere dell’ufficio, giunti all’aggiudicazione del relativo appalto (restauro del Castello Episcopio), o addirittura nemmeno previsti nel Piano Cervellati (risistemazione della Piazza Regina Margherita). Per non dire, poi, di quelle opere, come il parcheggio di via Crispi, in pieno quartiere delle ceramiche, che è addirittura iniziato e sta proseguendo, ovviamente senza che mai ed in alcun modo ne sia stato informato l’Ufficio, nonostante tale intervento abbia comportato l’abbattimento dell’unico e più antico muro a secco rimasto nel centro storico, e la scoperta di antichissime tombe.
Per converso, a qualsiasi proposta affacciata in questi anni dal nostro movimento, anche quelle più banali ed a costo zero, la risposta è sempre la stessa: “questo non si può fare”. Ed invece si è potuto fare, per esempio, un “Parco della Civiltà” - ah però! - che, delibera alla mano, è costato 671.000 euro (a fronte dei 21.000 stanziati quale contributo ai privati per interventi sulle facciate della abitazioni), che tuttavia non si è nemmeno avuto il coraggio di inaugurare e che oggi, a pochi mesi dalla sua realizzazione, è un ricettacolo di cocci di bottiglie ed erbacce, sempre deserto, con un parcheggio neppure sufficiente per le auto degli impiegati del vicino Municipio e giammai a servizio dei residenti del centro storico: al punto che la stessa Amministrazione sta già pensando di riqualificarlo.
Ed allora, cos’altro è, quest’Ufficio del Piano, nelle forme come nei contenuti del suo concreto operare, se non il maldestro simulacro di una forma di democrazia partecipata, allestito controvoglia da chi non ha ancora metabolizzato nemmeno i fondamenti dell’autentica partecipazione democratica alla cosa pubblica, probabilmente nella erronea e supponente convinzione che, per tener buoni i sudditi, basti concedere loro di sedersi allo stesso tavolo di chi comanda?
Peggio, dunque, della negata democrazia è la finta democrazia: ma il nostro compito di cittadini responsabili è quello di impegnarsi, in ogni occasione, perché si riaffermi la vera democrazia.
Nel nostro piccolo, ci stiamo provando.

giovedì 3 aprile 2008

Mobbing in Italia. Violenza bianca di nuovo a Taranto

Di recente la stampa, registrando drammatici fatti di cronaca, è intensamente tornata ad occuparsi del fenomeno delle morti bianche; espressione questa utilizzata ad indicare il decesso di lavoratori nello svolgimento delle proprie mansioni.

Ma v’è, se non silenzio, certo una tendenziale sottovalutazione di un altro fenomeno che viene profondamente ad incidere sulla e nella vita dei lavoratori, oltre che delle loro famiglie. Si tratta del mobbing; termine inglese questo con cui anche in Italia sinteticamente si indica una serie di azioni poste in essere nei confronti di un lavoratore in un lasso di tempo più o meno protratto da parte del suo datore o anche dei suoi colleghi allo scopo di prostrarlo sino addirittura ad indurlo alle dimissioni o comunque ad espellerlo dall’organizzazione lavorativa in cui è inserito. Se riguardo ai lavoratori la morte viene connotata dal colore “bianco”, rispetto agli stessi soggetti la violenza a base di tal ultimo fenomeno non può non essere connotata dallo stesso colore: il bianco.

Quel che in questo fenomeno spaventa, ma forse non abbastanza da muovere a specifici interventi legislativi di tutela, che in effetti ad oggi mancano, è la civile malvagità. Si, perché nel mobbing ad agire contro il lavoratore è una o più persone apparentemente civili.

E se tale fenomeno viene poi posto in essere in contesti religiosi? Certamente lo spavento cede allo sgomento o a ben più profondi sentimenti di raccapriccio!
I fatti di cronaca ci hanno presentato una sorta di livellamento nei ranghi sociali e negli àmbiti di perpetrazione della moderna brutalità. La nefandezza giunge a manifestarsi in crimine anche, purtroppo, in luoghi sottoposti all’autorità religiosa o comunque pervasi dall’aura della sacralità. I casi sono tanti, anche soltanto a limitare il pensiero agli ambienti religiosi prevalenti in Italia, vale a dire quelli cattolici.

Al riguardo si può citare lo storico caso del convento e del paese di Mazzarino, teatro di estorsioni negli anni cinquanta in terra siciliana, sino a giungere ai numerosi casi di seminari e centri di recupero per giovani in difficoltà, scenario di abusi sessuali e di pedofilia in questi nostri ultimi anni in terra italiana e americana. Non ci si può certo schermirsi sostenendo, come invece qualcuno ha fatto, che vicende di tal specie siano favorite o costruite dalla “lobby ebraica radical chic” o dalla massoneria o dal laicismo radicale o dalla magistratura anticlericale.

Se non amore di verità, di quella Verità che per fede professano, almeno onestà intellettuale e senso di cautela e giustizia vorrebbero che i vertici delle istituzioni ecclesiastiche riconoscessero apertamente che la fallacia degli uomini, anche di quelli che condividono le sacre vesti, si manifesta pure negli àmbiti posti sotto la propria vigilanza, cura, gestione. E se misfatti o alterazioni portano a scuotere enti e istituzioni religiose, lo stesso senso di cautela e giustizia vorrebbe che i medesimi vertici ecclesiastici intervenissero rimuovendo le cause della crisi, riparando il malfatto e prevenendo l’insorgere dei fattori di pregiudizio; e ciò prima che lo scandalo stracci non solo le loro vesti ma la stessa fede.

Ombre di un concreto deterioramento della corrispondenza ai superiori fini e principi della Chiesa cattolica paiono ora stendersi su strutture di questa o ispirate da questa presenti in terra di Taranto. Taranto, una terra già balzata ai disonori della cronaca negli ultimi anni per gravose situazioni.

V’è il dissesto finanziario dell’Amministrazione comunale, con un debito di 357 milioni di euro, con arresti, non però del sindaco Rossana Di Bello, e 33 indagati, tra funzionari ed ex amministratori, per falso, abuso di ufficio, truffa, peculato, corruzione etc.

V’è il critico inquinamento aereo di origine industriale, prevalentemente dallo stabilimento siderurgico ILVA, o, secondo alcuni, di concorrente e non trascurabile fonte veicolare, con un notevole incremento, negli ultimi 30 anni, della mortalità per cancro.

V’è l’inquietante problema della sicurezza della incolumità e della tutela della salute dei lavoratori dello stesso stabilimento ILVA, con la significativa ricorrenza di infortuni e morti bianche. Ed ora, come se tali attacchi ad essenziali beni della collettività, quali appunto la cosa pubblica, l’economia sostenibile, l’ambiente, la salute, peraltro posti in essere da alti responsabili degli enti coinvolti, non bastassero, la Terra Jonica deve registrare la mancata resistenza di strutture ecclesiastiche a tener indenni coloro che vi operano dall’odioso fenomeno del mobbing.

Nel contesto lavorativo della città dei due mari, in realtà, la violenza bianca fece la sua prima clamorosa comparsa una decina di anni fa e in ambito industriale. Nel maggio del ’97, una dozzina, poi diventata una settantina, di
impiegati “indesiderati” del centro siderurgico ILVA furono confinati per quasi un anno in una palazzina inutilizzata e fatiscente, quella che ospitava gli uffici del laminatoio a freddo, la cosiddetta “palazzina LAF”, all’interno dello stesso centro siderurgico, venendo costretti all’inoperosità e limitati nella comunicazione con l’esterno.

In tal modo si voleva imporre a questi lavoratori di accettare il declassamento contrattuale da impiegati a operai, altresì platealmente mostrando a tutti gli altri lavoratori dello stabilimento la consistenza del potere datoriale. Ai lavoratori la dequalificazione continuativa, con fini punitivi, comportò serie conseguenze sul piano psichico e fisico. Agli autori, undici tra dirigenti e quadri del siderurgico, tra i quali Emilio Riva, presidente del Consiglio di Amministrazione dell’ILVA, e Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento, la stessa situazione comportò l’imputazione del reato di tentativo di violenza privata, cui successivamente si accompagnò quella per frode processuale a ragione del mutamento dello stato dei luoghi compiuto nella palazzina LAF, onde farla apparire più vivibile, nel periodo compreso fra la notifica del decreto di ispezione e la sua esecuzione da parte della magistratura. L’Autorità giudiziaria avviò le indagini nei primi mesi del ’98.

Alla fine del ’99 si iniziò il processo, che, in primo grado, dopo due anni, il 7 dicembre 2001, giunse a sentenza con condanne tra i due anni e tre mesi ai nove mesi di reclusione. In appello, il 10 agosto 2005, le condanne furono confermate, con pene leggermente ridotte rispetto a quelle precedentemente inflitte. La Cassazione, con sentenza 8 marzo 2006 - 21 settembre 2006, ha confermato la decisione di secondo grado. Si tratta di un emblematico e famigerato caso di mobbing, tra i più citati negli studi, non soltanto italiani, su tale patologia organizzativa.

Nel contesto lavorativo della città dei due mari il mobbing sembra aver fatto di nuovo comparsa negli ultimi tempi e in un nuovo àmbito, quello ecclesiastico e, in particolare, cattolico; nuovo almeno per quel che si sa.

Risultando al momento superflui ulteriori dettagli, inoppugnabile certezza v’è su alcune circostanze. Una donna, sin dal 1986, all’età di ventitré anni, è impiegata in un ente di formazione istituito e gestito nella provincia di Taranto dalla Chiesa cattolica. Svolge innumerevoli mansioni e si spende per la migliore organizzazione dell’ente dedicando a questo tredici anni della propria vita, con grande e manifestato apprezzamento dei responsabili, dei docenti e degli studenti.

Dal 1999, nello stesso ente vengono a determinarsi situazioni che, sin dagli ultimi mesi del 2004, sulla persona della lavoratrice, ormai madre di famiglia, con marito e due figli appena adolescenti, si conclamano in gravi lesioni consistenti in disturbi, anche somatoformi, da panico e da sindrome post-traumatica da stress nonché in depressione grave; il tutto determinato da una continua situazione occupazionale disfunzionale caratterizzata da sovraccarico di lavoro e da costrittività organizzative ed attribuibile ad un fenomeno palesemente di mobbing lavorativo e relazionale, come accertato da specialisti in materia e da alcune delle più importanti e maggiori cliniche del lavoro in Italia.

Nel marzo 2005, dopo diciotto anni di lavoro nello stesso ente ecclesiastico, la lavoratrice, madre di famiglia e ormai quarantaduenne, viene licenziata. Le lesioni vengono diagnosticate con carattere permanente per un grado non inferiore al 71,20 per cento; si, proprio settantuno e venti per cento. A parere degli specialisti, pur con appropriate terapie la malattia potrebbe persistere per non meno di cinque-sei anni circa; si, proprio cinque-sei anni almeno di malattia, nell’ipotesi più fausta; ma residuando sempre esiti permanenti difficilmente reversibili.

Si è così distrutta una persona e, con questa, anche la sua famiglia.

E la terra di Taranto, già martoriata dalle disfunzioni sia del potere politico-amministrativo sia del potere economico, da questo fatto risulta ancor più incisa e, questa volta, per effetto di altri àmbiti.

Sulla vicenda, che è emersa appunto alla fine del 2004, il potere giudiziario sta ad oggi ancora alacremente operando, tanto alacremente, si auspica, quanto l’impenetrabilità del silenzio che assordantemente finora sul caso ha dominato.

L’auspicio del buon e intenso operare non può non essere alimentato!

D’altro canto, cosa può fare l’individuo, vittima o non ancora vittima, innanzi al delineato dissesto se non riporre fiducia nelle superiori e imparziali istanze dello Stato di diritto, aspettandosi e, se del caso, reclamando un agire senza timore e tremore?

Scritto il 31 Marzo 2008 da Pico della Tarantola

Da: Le cose che non vanno.com
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